venerdì 20 febbraio 2015

Rifrazioni giacomettiane - 2

Nello stesso modo in cui, forse, si può considerare incompiuta tutta l'opera di Alberto Giacometti - appare come puro anelito, tentativo, aspirazione in costante svolgimento - credo di avere lasciato a metà anche le riflessioni che ho tentato di fare nell'articolo precedente. "Tentato", appunto, perché di Giacometti
si può solo tentare di discutere. "Riflessioni" inoltre non sembra essere il termine più adatto: troppo pomposo per riferirsi a un autore scarno, nel fisico e nel lavoro, nodoso, immagine di quegli alberi antichi del paesaggio dei Grigioni che gli ha dato i natali. Forse sarebbe più adatto "rifrazioni": un fascio luminoso che si frange e si rifrange perché di Giacometti non si può mai finire di parlare; ogni elaborazione diviene magmatica, procellosa, non definibile.
È presente un continuo dinamismo nelle sue sculture, un movimento sia del soggetto rappresentato sia della materia che lo costituisce: l'homme qui marche, marcia, cammina verso di noi, non sta fermo, ha il passo deciso, costante del contadino montanaro. Un passo che non esprime incertezza, semmai prudenza. È il passo "non più lungo della gamba" che l'uomo concretamente attaccato alla terra sa di dover fare per rimanere al mondo, ma non fermo nel mondo. Pertanto eretto, decoroso, non fiero, la fierezza non è un sostantivo che si adatta all'uomo giacomettiano così intimo, profondo, che si proietta su una dimensione a cui non appartiene la retorica. 
La materia stessa è movimento incessante, frutto degli infiniti tentativi di dita ossute come rami di darle una forma definitiva, ultimativa. Una superficie increspata da chissà quali abitudini, turbamenti, pensieri, venti del desiderio e delle angosce. Giacometti sembra voler costantemente rappresentare una verità in divenire che prende e cambia forma sotto le sue mani, davanti ai suoi occhi. Una realtà di cui egli stesso non conosce la natura, ne coglie solo il bisogno di esprimersi: una realtà che produce il suo stupore, che è sempre nuova ai suoi occhi e non afferrabile. Una realtà che è una sfida costante, una messa alla prova.
Una domanda che l'osservatore non può fare a meno di porsi è pertanto quanto l'opera di Giacometti rifletta la personalità del suo autore: in che misura la sua dimensione del fare contenga la dimensione dell'essere. Una domanda che invero può essere rivolta all'opera di qualsiasi artista, ma che in Giacometti sembra essere suggerita con un tono di voce più udibile e ineludibile.
Da quello che abbiamo visto e ci siamo detti, si potrebbe concludere che le intenzioni di Giacometti sfuggano all'artista e che non sia capace di rappresentare in toto materialmente le proprie visioni e intuizi
oni, vinto da un'ansia che non gli dà tregua, lo perseguita e lo incarcera, mettendolo difronte ai propri limiti umani e artistici. Lo possiede un'ambizione troppo grande per le sue capacità o forse per le capacità di qualunque artista: la rappresentazione della condizione umana.
Questa incapacità, questa condizione esistenziale come "essenza mancante" tuttavia emerge evidente: l'opera esprime totalmente la sua ansia, la sua minorazione rispetto alle intuizioni, ai richiami a qualcosa di più universale e profondo.
Ne consegue poi un'altra domanda: quanto le sculture di Giacometti, nel rappresentare la sua inadeguatezza rispetto ai bagliori di una realtà più grande, siano in grado di contenere tutta l'imperfezione dell'artista. Espresso in altri termini, data l'imperfezione e la costante mancanza di compimento della sua arte, quanto questa mancanza in realtà esaurisce tutto quello che Giacometti è capace di dire e di fare? Abbiamo forse arbitrariamente concluso che l'autore non riesce a esprimere quello che vuole, ma ci chiediamo se egli esprima in questa "lacuna" tutto se stesso o ci sia dell'altro che non vediamo perché non si è materializzato, non ha trovato vita nell'espressione figurativa.
Nell'accademico dialogo tra fare ed essere siamo in questo caso indotti a pensare che il fare non esaurisca l'essere, che Giacometti cioè trascenda la sua opera. Niente infatti ci viene detto dei gesti scartati, della materia buttata, del processo di selezione, di tutto quello che non andava bene al vaglio dell'occhio e del cuore dell'artista. Non sappiamo nulla dei suoi "rifiuti", di quel che non riteneva degno di ulteriori tentativi, ma di esclusione, cancellazione o rimodellamento. Un'opera artistica non è mai in grado di dirci nulla del processo complesso che ha portato alla sua realizzazione, ne vediamo infatti solo il risultato finale: non sappiamo nulla del momento dell'ideazione, dei ripensamenti, dello svolgersi del lavoro, delle costrizioni, delle modalità di scelta dei materiali, dei contributi eventualmente apportati da altri, dei contrasti, dell'ambiente che ne ha ispirato la realizzazione, l'ha condizionata o bloccata. Un'opera porta in sé la mancanza, l'abbandono di tutto quanto non era ancora se stessa. Si stacca dall'albero come un frutto e rotola lontano e non sappiamo più nulla dell'albero che l'ha generato, l'acqua, il sole, la terra che l'hanno fatto crescere. Molto è quindi lasciato all'immaginazione di noi osservatori, esperti o profani, a quello che l'opera riesce a ispirarci. L'interpretazione soggettiva ha il potere di trovare nutrimento non solo nelle eventuali conoscenze e competenze artistiche dell'osservatore, ma soprattutto nelle sue personali riflessioni ed emozioni che non di rado non hanno origine nel contatto con l'arte, ma che attraverso l'esperienza artistica trovano un nuovo significato, una nuova forma e diventano più pienamente comprensibili. L'arte diventa così strumento maieutico capace di far emergere e attribuire senso, valore, reinterpretando la propria esperienza esistenziale in modo più ampio e più ricco. L'opera di Giacometti, proprio per la sua indefinibilità fisica, materiale, i suoi confini aperti, la sua imperfezione e incompiutezza, sembra possedere un potere educativo - in senso etimologico, forse addirittura taumaturgico - ancora più forte, più imbrigliante l'attenzione e la sosta dello sguardo dell'osservatore su di essa.
Un potere che induce a indagare oltre, a capire, a esplorare la metafisica dell'opera, ma anche ad approfondirne lo studio in un dominio che non è solo intellettuale, ma è attraversato dall'esperienza personale vissuta dal soggetto, diventando per lui profondamente e diversamente simbolico ed evocativo.
Per questo credo che Alberto Giacometti sia un artista che possa dare infinite suggestioni da cui trarre ispirazione in diversi contesti e segmentazioni della vita di ognuno di noi e che cercherò di affrontare in un prossimo articolo in cui cercherò di contrapporre sete di perfezione e bisogno di cambiamento. Se non vi darà noia.

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